GABRIEL HORTOBAGYI: “UN TASSELLO DOPO L’ALTRO, SALVEREMO IL SENO”
E’ stato un pioniere dell’oncologia, quando occuparsi di cancro era considerato un suicidio professionale. Ungherese di origine, è arrivato all’MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas nel 1974, dove si è sempre occupato di tumore al seno. Le sue ricerche hanno contribuito a rivoluzionare la comprensione e la cura di questa malattia PIU’ dell’80% delle malate vive. E vive molti anni anche se il cancro è avanzato. Un grande dell’oncologia spiega cosa si deve ancora fare. E il perché dei successi «Quando ho cominciato a lavorare, l’oncologia non esisteva ancora. Eravamo medici prestati da altre discipline che cercavano soluzioni a una situazione disperata»: Gabriel N. Hortobagyi, tra i maggiori esperti al mondo di cancro al seno, quegli anni li ha ben impressi nella memoria. E se oggi da questa malattia si può guarire nella maggior parte dei casi, molto lo si deve alle sue ricerche. Non è certo un caso che a lui sia andato, lo scorso 4 giugno, l’importante riconoscimento Gianni Bonadonna Breast Cancer Award della American Society of Clinical Oncology (Asco). A scorrere la lista delle sue ricerche, sembra non finiscano mai: i suoi primi studi sulla chemioterapia preoperatoria hanno permesso di curare donne fino a quel momento senza speranze, perché non operabili. Oggi il suo lavoro guarda soprattutto alla fase avanzata della malattia, quella che fa paura perché quando compaiono le metastasi la guarigione diventa un miraggio. Nonostante i tanti traguardi, infatti, siamo lontani dal poter dire che il tumore al seno sia stato sconfitto, come lui stesso ci racconta.
Professor Hortobagyi, tante battaglie vinte contro il cancro del seno. A cosa lo dobbiamo?
«Sono il frutto di quattro intensi decenni di ricerca. Quando abbiamo cominciato a sviluppare i primi farmaci, tra gli anni ‘60 e ‘70, sapevamo ancora poco della biologia, della genetica e dell’immunologia della malattia. E, ancora più importante, sapevamo poco dei meccanismi che regolano le cellule sane. In questi decenni sono stati fatti grandi investimenti negli Usa come in Italia, Francia, Germania e Regno Unito. Il risultato è aver capito che il tumore al seno non è una sola malattia, ma 10 o 20 diverse, e ognuna richiede una specifica strategia. Abbiamo individuato alcuni bersagli molecolari e negli scorsi 20 anni abbiamo sviluppato farmaci che mirano in modo altamente specifico a questi target».
Per esempio?
«Il primo è stato l’ormonoterapia con il tamoxifen (che blocca l’interazione del tumore con gli estrogeni, implicati in circa due terzi dei casi, ndr). Un altro importante bersaglio è una proteina (che chiamiamo Her2, recettore di tipo 2 del fattore di crescita epidermico umano) contro cui sono stati sviluppati diversi farmaci ( trastuzumab, pertuzumab, Tdm- 1, lapatinib, neratinib): tutti mirati proprio su quella proteina e con tossicità limitata. Questo è il motivo per cui abbiamo vinto molte battaglie, anche se la guerra è ancora in corso e probabilmente ci vorranno decenni prima di poter dire di aver sconfitto questo gruppo di tumori, così come altri».
Pensa che la vecchia metafora della guerra contro il cancro sia ancora attuale? Per molte pazienti non lo è.
«È vero, guerra è una parola aggressiva che nasce da una frustrazione. Una analogia migliore è forse quella del puzzle: il cancro è un enorme puzzle con moltissime tessere. Sappiamo che mettere ciascun tassello al suo posto richiede ogni volta un grande sforzo, ma l’immagine è certamente più positiva. Nelle guerre, invece, si perde sempre un po’ tutti».
Lei ha fatto gli studi sulla chemioterapia che si somministra prima dell’intervento, che ha aperto alla possibilità di trattare le donne che non si potevano operare.
«È stata la prima area di collaborazione con l’amico Gianni Bonadonna e il suo gruppo di Milano. Nella metà degli anni ‘ 70 avevamo dimostrato che il tumore primario poteva essere ridotto di molto, e le pazienti che fino a quel momento non erano operabili potevano essere finalmente curate. La chemioterapia neoadiuvante ha realmente cambiato la prognosi di queste donne e in particolare di chi presenta un tumore infiammatorio, molto aggressivo: oggi circa il 70- 80% di loro può stare bene a lungo. In molti casi, inoltre, invece della mastectomia totale, riducendo la massa tumorale con la chemioterapia adiuvante, si è potuto ricorrere a una chirurgia più conservativ».
Nonostante tanti traguardi, però, ci sono casi in cui la malattia ricompare , o che non rispondono alle cure. Sembra che il cancro trovi comunque un modo. Cosa resta da fare?
«In parte è vero, ma molto dipende se parliamo di tumori ai primi stadi o avanzati. Dobbiamo concentrare gli sforzi su due fronti. Prima di tutto dobbiamo spingere sulla prevenzione e sulla diagnosi precoce: essere sempre più bravi a diagnosticare il tumore il prima possibile. Oggi sopravvive circa il 95% delle donne con una malattia al primo stadio e l’ 85% o più di chi ha la diagnosi allo stadio 2. Io, per esempio, sto tuttora seguendo pazienti che ho avuto in cura 45 anni fa e che non sarebbero in vita senza i progressi dell’oncologia. L’Italia ha investito molto nella prevenzione ed è un paese virtuoso. In secondo luogo, poi, dobbiamo comprendere i meccanismi che portano allo sviluppo di resistenze – sia all’ormonoterapia, sia alle chemioterapie sia alle terapie target – per prevenirle e bypassarle. Questo è un punto centrale».
L’immunoterapia è la nuova promettente strada che ha reso curabili molti tumori. Perché ha trovato poco spazio nel seno?
«Perché questi tumori sono meno immunogenici ( stimolano poco la risposta immunitaria, ndr.) di altri, tanto che in alcuni studi si tenta prima di modificarli per renderli più responsivi. Ma l’immunoterapia è comunque uno dei campi più promettenti: l’aspetto interessante è che sembra essere più efficace proprio in quei tumori con molte anormalità genetiche e molecolari, caratteristiche della resistenza. Sono probabilmente centinaia le ricerche in corso in tutto il mondo, e all’ultimo congresso dell’Asco di Chicago sono stati presentati studi clinici su combinazione di immunoterapia e farmaci già in uso, i Parp inibitori, che hanno dato risultati superiori alle singole strategie. Per ora queste ricerche riguardano le pazienti metastatiche, ma in futuro si guarderà anche a chi a tumori primari difficili da trattare. Si sta inoltre tentando la strada dell’ingegneria cellulare e dei vaccini».
Un tipo di tumore particolarmente difficile è il cosiddetto triplo negativo: le sue cellule non hanno nessuno dei tre bersagli contro cui sono dirette le cure più efficaci, e non può essere trattato né con l’ormonoterapia né con gli anti Her2. Ci sono novità in questo ambito?
«Sì, e molto importanti. Una riguarda proprio la combinazione di immunoterapia e Parp inibitori che ho citato: questi farmaci, infatti, danno maggiori benefici in chi ha delle specifiche mutazioni genetiche, come Brca1 e 2, e quasi tutti i tumori Brca1 sono triplo negativi. Nell’area degli anticorpi monoclonali, invece, un nuovo farmaco ( sacituzumab govitecan) funziona così bene che l’autorità americana, la Fda, ha concesso un iter di approvazione accelerata proprio per trattare il triplo negativo. Ancora, cominciamo a vedere i risultati di sperimentazioni di alcune terapie bersaglio. Infine, sappiamo che alcuni tumori triplo negativi presentano il recettore per gli androgeni, un altro target su cui si sta concentrando la ricerca».
Cosa significa avere il tumore al seno metastatico oggi rispetto al passato?
«È ancora una diagnosi molto seria. Ma sono stati fatti progressi enormi: 20 anni fa la sopravvivenza era in media di 20 mesi, oggi per la maggior parte delle pazienti si avvicina a cinque anni. C’è poi un gruppo di pazienti che vivono 10, 15 e anche 20 anni. Non solo: una percentuale di donne con una o poche metastasi può essere potenzialmente guarita combinando chirurgia, radioterapia e farmaci, soprattutto chemioterapie ma anche a bersaglio molecolare. Tra questi c’è nuova classe di farmaci».
Cosa possiamo aspettarci da queste nuove molecole?
«Si chiamano inibitori di Cdk e attualmente ne abbiamo a disposizione tre: sono farmaci potenti, in grado di aumentare il tempo in cui la malattia è tenuta sotto controllo. Anche in questo caso, però, stanno emergendo dei meccanismi di resistenza. Si stanno quindi sviluppando inibitori di Cdk di seconda generazione. È un work in progress che credo ci porterà a molte generazioni di inibitori di chinasi ciclino-dipendente da usare in sequenza, laddove la prima generazione non dia più benefici. È un campo in forte fermento. Insomma, se è vero che non abbiamo ancora una cura, stiamo ottenendo molto in termini di aspettativa e qualità di vita e ci aspettiamo un significativo aumento della sopravvivenza. E abbiamo una piccola speranza che prima non c’era».
Lei è stato un pioniere dell’oncologia. Quale significato ha oggi questa parola?
«Oggi ci sono centinaia di migliaia di oncologi, eccellenti scuole di alta specializzazione e società scientifiche. Quindi è molto difficile che possano esserci ancora dei pionieri. Uno è sicuramente Alan Ashworth ( uno degli scopritori delle mutazioni del gene Brca 2, oggi presidente della Breast Cancer Research Foundation, ndr.), che da solo ha sviluppato il concetto che poi ha portato alla messa a punto dei Parp inibitori, approvati per il cancro al seno. Ci sono altri pochi esempi come questo. Siamo arrivati a un punto in cui la maggior parte delle ricerche porta a piccoli miglioramenti incrementali di quello che già esiste: ognuno dà il suo contributo per aggiungere un piccolo tassello al puzzle. In realtà i veri pionieri, adesso come 40 anni fa, sono, loro malgrado, le pazienti. Che mettono a disposizione la propria vita partecipando agli studi e hanno permesso tutti questi progressi».
di Tiziana Moriconi
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