Tumore al seno, quasi una donna su tre non è ancora curata in una Breast Unit.

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Un’indagine fotografa i vissuti di oltre 500 pazienti e le mancanze riscontrate nel percorso di cura. Come i tempi di attesa ancora troppo lunghi. Ecco le dieci richieste della campagna “Chiedo di +”

CI SIAMO quasi. Ma in quel quasi c’è la vita di tante donne con il tumore al seno a cui ancora non sono assicurate le cure migliori. Quasi una su tre, infatti, non è ancora trattata in una Breast Unit. Se è vero che rispetto a 10 anni fa si sono fatti giganti passi avanti, restano molti “bachi”. A farli emergere è la prima ricognizione sulla percezione della qualità dei percorsi di cura da parte delle pazienti, grazie alla quale sono state individuate dieci azioni concrete, diventate il cuore della campagna “Chiedo di +” realizzata da Europa Donna Italia con il supporto incondizionato di Roche, e presentata oggi al Senato della Repubblica.

“Con la campagna “Chiedo di +” abbiamo voluto interpellare le dirette interessate, le pazienti, per far emergere dalla loro esperienza quali sono i gap da colmare affinché tutte le Breast Unit d’Italia funzionino secondo i criteri previsti dalla normativa”, dice Rosanna D’Antona, Presidente di Europa Donna Italia. Già: dallo scorso anno le Breast Unit sono nei LEA (Livelli essenziali di assistenza), eppure “in alcune Regioni stentano ancora a decollare, e a livello nazionale non è ancora stato condotto un monitoraggio omogeneo della qualità delle prestazioni e dei percorsi offerti alle pazienti”, sottolinea D’Antona.

Tempi di attesa ancora troppo lunghi, mancanza di informazioni e di supporto psicologico.

L’indagine è stata svolta dall’Istituto di Ricerca SWG su oltre 500 pazienti. Uno dei bisogni più importanti emersi riguarda i tempi della cura: secondo quanto riferito dalle pazienti, i tempi stabiliti dai percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA) e indicati dagli specialisti troppe volte non vengono rispettati. Le pazienti riportano, per esempio, oltre due mesi di attesa in media tra l’esecuzione degli esami e la diagnosi. Un altro problema riguarda la carenza di informazioni sia sugli effetti collaterali delle terapie sia su come gestirli, segnalato da oltre il 42% riguardo all’ormonoterapia. E’ un dato particolarmente significativo se si considera che queste cure si prolungano per 5 anni, che spesso vengono abbandonate proprio a causa di questi effetti. La carenza di informazioni riguarda anche la prevenzione e la cura del linfedema, anche con trattamenti precoci che possono portare a interventi meno invasivi: soffre di linfedema una intervistata su 4 e una su 6 riferisce di non aver ricevuto sufficiente supporto nella riabilitazione, nonostante sia prevista dai Livelli Essenziali di Assistenza. Non meno importante sembra essere il supporto dello psiconcologo, insufficiente per 2 pazienti su tre.

Familiarità e preservazione della fertilità ancora poco considerate

Una grave mancanza è riportata nell’accertamento della presenza di familiarità o di mutazioni genetiche (nei geni Brca), importante soprattutto nelle under 40. Eppure la domanda sulla familiarità non è stata posta a una intervistata su quattro, mentre nel 22% dei casi ai familiari delle donne con mutazione non è stato offerto né il counseling né la sorveglianza. Discorso simile per la conservazione della fertilità nelle giovani pazienti, che troppo spesso non ricevono adeguate informazioni e assistenza. Ancora, si rilevano l’importanza della presenza del chirurgo oncoplastico all’interno del team multidisciplinare, vista l’alta percentuale di mastectomie (43% delle donne intervistate sottoposte ad intervento chirurgico), e la necessità di una presa in carico continuativa: 4 intervistate su 10 hanno dovuto cambiare struttura e per molte di loro questo ha significato il cambio della terapia. Ultimi ma non certo per importanza: manca la figura di un nutrizionista che possa aiutarle a migliorare lo stile di vita, anche nell’ottica di ridurre il rischio di recidiva.

Le storie valgono quanto i dati.

“La ricerca rivela le opinioni e i vissuti delle pazienti: non è quindi uno studio epidemiologico, ma i racconti valgono quanto i dati”, dice Riccardo Grassi, Direttore di Ricerca SWG: “Il modo corretto di leggere questa indagine è di non guardare solo ai numeri, ma alle persone che vi sono dietro. Ben il 29% delle intervistate, per esempio, non ricorda se è stata curata in una Breast Unit: già solo questo dice molto della mancanza di comunicazione: come può una donna non sapere se è presa in cura da una equipe oppure no? in un contesto in cui in generale il rapporto con le strutture di cura è positivo, emerge molto forte il bisogno di collocare il percorso terapeutico in un quadro di relazione più umana: oltre una donna su 4, per esempio, afferma di aver ricevuto la diagnosi in modo ‘freddo e distaccato’, e più di una su dieci (13%) addirittura per telefono o per lettera.

Il tassello ancora mancante nella rete delle Breast Unit: monitoraggio e controllo.

“Sono stati fatti enormi progressi”, sottolinea Corrado Tinterri, Coordinatore del Comitato tecnico-scientifico di Europa Donna Italia e Membro del Gruppo di lavoro ministeriale per il coordinamento e l’implementazione dei centri di senologia: “Dieci anni fa solo il 12-14% delle donne veniva curato in centri che trattavano più di 150 casi l’anno. Oggi ci sono 140 Breast Unit in Italia: siamo vicini al numero ideale. Insomma, la partita più importante è chiusa, ma non ci fermiamo. Il ruolo della Commissione ministeriale sarà fondamentale, perché quando sarà operativa – è questione di burocrazia e volontà politica – dovrà vigilare sulla Rete dei centri e garantire alle donne un percorso di cura di qualità in tutto il territorio nazionale insieme ad Agenas”.

L’importaza di cure sempre più precoci.

Un altro importante dato emerso dall’indagine riguarda il trattamento neoadiuvante, indicato in alcuni casi prima dell’intervento chirurgico per ridurre le dimensioni del tumore e poter operare in modo più conservativo, diminuendo, così, anche il rischio di linfedema. La metà delle intervistate dichiara di conoscere la terapia neoadiuvante e quasi 1 su 4 di averla seguita. Commenta Tinterri: “Ci sono evidenze che mostrano come in determinati casi agire fin da subito sul tumore con una terapia oncologica porti dei vantaggi. Questa pratica deve di certo aumentare perché la sua attuazione in alcuni stadi del tumore garantisce una risposta completa e può trasformare interventi demolitivi in conservativi sia sulla mammella che sulla ascella. In chi ha una risposta completa, inoltre, è stato osservato un aumento della sopravvivenza, in particolare per alcuni tipi di tumore al seno più aggressivi, come quelli HER 2 positivi e triplo negativi. Un altro vantaggio della terapia neoadiuvante è quello di permettere, fin da subito, una valutazione ‘in vivo’ dell’attività antitumorale del trattamento nella singola paziente. Importante però è che venga eseguito da personale specializzato e preparato all’interno delle Breast Unit”.

Prima è meglio. E conviene.

Sono significativi anche dal punto di vista della sostenibilità i vantaggi di un approccio alla cura del tumore al seno che combini la multidisciplinarietà tipica della Breast Unit con un trattamento precoce della malattia. “Il carcinoma mammario comporta una spesa annua molto importante, pari a circa 600 milioni di Euro”, afferma Francesco Saverio Mennini del Centre for Economic Evaluation and HTA (EEHTA) – Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata: “Di questi, circa la metà (52%) è rappresentata dai costi ospedalieri e oltre il 41% dai costi indiretti. È quindi necessario cambiare il paradigma della valutazione, focalizzando l’attenzione su una stima del peso economico che sia onnicomprensiva (costi diretti sanitari, non sanitari e indiretti). La diagnosi precoce, accompagnata dal ricorso tempestivo a terapie efficaci, non consente solo di migliorare la prognosi ma anche di ridurre i costi diretti e previdenziali associati alla malattia. In quest’ottica, la possibilità di migliorare l’efficacia terapeutica del trattamento dei tumori primari potrebbe determinare una notevole riduzione della spesa”.

Ecco, quindi, i dieci “Chiedo di +” delle pazienti. Che si possono riassumere con una sola frase: che tutte le Breast Unit previste in ciascuna Regione siano realizzate e lavorino come previsto dalla legge.

FONTE: https://www.repubblica.it/dossier/salute/saluteseno/2019/10/30/news/tumore_al_seno_quasi_una_donna_su_tre_non_e_curata_in_una_breast_unit-239891544/

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